Religione

Il Bel Pastore, immagine del bisogno di essere curati

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv 10,27-30)

La quarta domenica di Pasqua ci presenta il Risorto come il Buon “Pastore”, anzi il Bel Pastore. Questa precisazione è importante perché mentre la bontà appartiene alla sfera del fare, la bellezza è, invece, propria della sfera dell’essere. Insomma, è meglio essere belli che fare i buoni: l’azione buona può rimanere infatti estrinseca al soggetto che la compie (come accade al malvagio che compie il bene), mentre la persona bella non potrà non fare il bene. Essere belli significa corrispondere alla immagine più autentica, più vera, di se stessi, scoprendosi capaci di amare e di farsi dono per gli altri. Come Gesù, il Bel Pastore, che dà la vita per le proprie pecore, quelle pecore che nessuno potrà strappare dalla sua mano nella quale egli tenacemente le custodisce.  A differenza di Gesù, il Bel Pastore, noi spesso -invece-non tratteniamo nelle nostre mani l’altro, non sappiamo custodirlo, ma sappiamo piuttosto come perderlo. E perdiamo l’altro perché ci chiudiamo nel nostro egoismo, smarrendo -mentre perdiamo l’altro- anche noi stessi ed il senso del nostro vivere che sta nella relazione con il Padre e con i fratelli.

L’immagine del pastore e delle pecore -appartenente al mondo agricolo-pastorale ormai non più attuale- rinvia tuttavia alla nostra realtà di individui spinti ad allontanarci dal “gregge” (dalla comunità cui apparteniamo) in quanto desiderosi di altre esperienze di vita e nello stesso tempo indotti  a far ritorno all’”ovile” perché continuiamo a cercare qualcuno che si prenda cura di noi. Tutti abbiamo un bisogno di cura che ereditiamo dalla nostra stessa storia di crescita: senza qualcuno che si fosse preso cura di noi, la nostra vita non sarebbe sbocciata. Siamo nati fragili e lo restiamo. Abbiamo bisogno di una mano che ci custodisca e di una mano che a sua volta custodisca l’altro (che ci viene affidato e di cui siamo responsabili). Tuttavia questo bisogno innato di essere curati viene spesso negato dalla cultura dominante che spinge ad affermare -al contrario- la propria indipendenza, autonomia ed autosufficienza. L’immagine del Pastore ci suggerisce, invece, che questo bisogno di cura non può essere trascurato e che solo Gesù può colmarlo pienamente. Il nostro è il Dio che si prende cura delle ferite dei suoi figli, di tutti i suoi figli!  Ferite che  accompagnano le nostre scelte di libertà, come loro possibile esito. Nell’”ovile” -immagine della vita-  ci si può infatti anche perdere, a seconda delle scelte di vita o di morte che facciamo. Nell’ “ovile” c’è una porta,  simbolo della libertà: possiamo cioè decidere se restare o andarcene. Anzi, Gesù, il Bel Pastore, si definisce come la Porta stessa: “Io sono la porta delle pecore”, ad indicare che egli non ci vuole prigionieri. La responsabilità della vita è sempre nelle nostre mani! Ma anche quando dovessimo perderci, Gesù è sempre alla nostra ricerca, in attesa che noi gli apriamo il cuore: lui continua a credere in noi, anche quando lo abbandoniamo o lo tradiamo (come hanno fatto i discepoli). Qui sta l’insegnamento di Gesù, Bel Pastore: “avere fede non significa tanto credere in Dio, quanto credere che Dio si fida di me”.

Un appiglio sicuro alle nostre scelte ci viene offerto dalla voce di Gesù (“Le mie pecore ascoltano la mia voce”) con la quale dovremmo familiarizzare, discernendola dalle mille voci che affollano le nostre orecchie. Voci spesso disorientanti, voci come sirene che tentano di sedurci, allontanandoci dal contatto con noi stessi e dalla nostra autenticità, dal volto interiore della nostra bellezza. Voci cui non interessa il nostro bene, ma solo il proprio interesse, in un contesto -come quello attuale- dominato dal proliferare di figure mediatiche che dicono tutto ed il contrario di tutto, sacrificando la verità sull’altare dell’audience, dello spettacolo, della pubblicità.

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