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“Mamma, ma il fratellino guarirà dalla sindrome di Down?”

“No, tesoro, semplicemente per il fatto che la sindrome di Down non è una malattia” “Ma allora se non è malato, che problema c’è?”

Sono le parole tratte da un colloquio avvenuto fra la sorellina di un bimbo appena nato e la sua mamma, quando le ha annunciato la condizione genetica del fratellino. Parole che contengono la saggezza e la sapienza dell’animo incontaminato di una bambina, che le permette di leggere la realtà in modo giusto, senza pregiudizi di sorta. Quando si dice che dai piccoli c’è sempre da apprendere.

Sono parole che ormai fanno parte del bagaglio di famiglie, compresa la mia, e di tanti nostri amici, accomunati dall’avere accolto un figlio con la sindrome di Down. E questo vale anche per altre forme di disabilità.

Chi può accedere ad una delle tante pagine presenti su Facebook (basta cercare “Famiglie con figli con la Sindrome di Down”) se ne rende conto di persona. E scopri che il problema non ce l’abbiamo dentro, ma fuori dalle nostre mura domestiche, per una mentalità ancora diffusa che associa la parola disabilità a quella di problema e ad un sentire comune che ti fa giudicare una persona dall’andatura inusuale o da come si esprime. Una mentalità che, in altre parole, ti invita ad essere superficiale.

Non lo neghiamo: quando ci è stata annunciato che nostro figlio portava con sé un cromosoma in più, non abbiamo fatto salti di gioia, anzi: in un attimo sono crollate tutte le aspettative di mamme e papà verso un figlio che potesse nascere in condizioni di salute. E sentimenti come dolore, sgomento, rabbia, smarrimento e frasi del tipo “perché proprio a lui, perché proprio a noi”, sono ricorsi per giorni e giorni all’interno delle nostre mura di casa, dalle quali per molti di noi era difficile uscire. E per chi aveva una fede, essa è stata messa alla prova.

Ma è altrettanto vero che tante sono le testimonianze di famiglie che raccontano la scoperta di ciò che avveniva, giorno dopo giorno, nelle loro case, al punto da poter dire: “non era così come sembrava”. Ed erano proprio i nostri figli i narratori di una storia nuova, imprevedibile.

I nostri figli sono anzitutto delle persone, assolutamente non coincidenti con la loro sindrome. Sono, semplicemente, dei figli e non un errore genetico né uno scherzo della natura. E come ciascun figlio, ci chiedono di fare, semplicemente, i genitori, favorendo le circostanze perché possano esprimere le loro potenzialità. Ci aiutano ad essere quelli che dobbiamo essere.

Sono straordinari allenatori perché ci aiutano a dare il meglio di noi stessi.  Sono bravi insegnanti, indicandoci, ad esempio, che la natura ha tempi che spesso non coincidono con i nostri.

Sono dei veri e propri catalizzatori di relazioni autentiche, di amore scambievole, di armonia, perché la loro crescita avviene meglio in un ambiente nel quale al primo posto non c’è l’io ma c’è il noi, e ci si vuol bene di conseguenza.

Sono fonti di gioia e di semplicità, antidoti del tanto malessere che affligge la convivenza umana.

Ebbene sì. La vita con loro ha fatto il salto di qualità, portando energia ad un elettrone che girava pacifico nella sua orbita e portandolo ad un livello più in alto.

Tutto questo, e molto di più, ci fa dire che la sindrome di Down è benessere, per chi la vive, non importa quanto direttamente.

Mettere da parte sentimenti come il buonismo e, peggio ancora, il pietismo, può metterci nelle condizioni di guardare una persona con la sindrome di Down per quella che è, scoprendo che la disabilità può essere una grande risorsa per chiunque. Basta cambiare mentalità e punti di vista per scoprire un nuovo modo di stare bene.

E meno male che dalla sindrome di Down non si può guarire.

Marco Milazzo ass.vita21enna@gmail.com

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