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La Chiesa nei giorni del Covid-19. Padre Ruggiero: “E’ un’Apocalisse. Dobbiamo cominciare a pensare di costruire un nuovo mondo su valori diversi”

Padre Pietro Antonio Ruggiero è il Parroco della Parrocchia di San Cataldo a Gagliano Castelferrato. Josè Trovato lo ha intervistato sull’emergenza di queste settimane.

Nei giorni del Coronavirus, nell’isolamento forzato di questi giorni, si sente lontano dai suoi parrocchiani?

Si e no. Da una parte rispondo si, perché la stessa parola “ecclesia” significa “convocazione” ed è chiaro che questa convocazione non può essere solo virtuale o solo spirituale, altrimenti a cosa sarebbe servito un Dio che sceglie di incarnarsi? Quindi da questo punto di vista rispondo che mi sento lontano dai miei parrocchiani. Dall’altra parte rispondo di no, perché pur essendo una dimensione concreta, vi è una comunione che riesce a travalicare ogni distanza e ogni barriera.

Una domanda un po’ provocatoria, perché contiene una forzatura evidente: come “lavora” un parroco senza chiesa?

Devo essere sincero? Sto lavorando di più e mi sento più stanco. Incontrarsi, guardarsi negli occhi, camminare insieme, rende tutto più semplice e più fruttuoso. Invece, in questo modo tutto è più complicato e poi, volendo raccogliere la provocazione, mica un parroco lavora in Chiesa! La Chiesa è il luogo dove si incontra Dio, un parroco lavora nelle case, accanto alle persone, nella vita quotidiana fatta di incontri, di gioie e di fatiche.

Proprio nel momento in cui c’è più bisogno di una guida spirituale, non si può andare neppure in Chiesa. Papa Francesco qualche giorno fa ha detto di fare affidamento sui suoi sacerdoti. Ecco, ma dove siete?

La parola d’ordine è: “Io resto a casa”, personalmente ne ho aggiunta un’altra .“Io ci sono”. Provo ad esserci innanzitutto con la preghiera, che ritengo essere un veicolo potente di “compagnia”; con la disponibilità telefonica – ho diffuso il mio numero a quanta più gente possibile – ; venendo incontro a tanti bisogni soprattutto di persone sole e fragili, che in questi giorni vedono amplificata la propria solitudine. Poi ho scelto di tenere la porta della Chiesa aperta, ritengo sia un gesto simbolico importante. In qualche momento, ho avuto la sensazione che ci venisse detto tra le righe: “Toglietevi di mezzo, abbiamo da fare cose importanti”; ma poi spronato ed incoraggiato dalle parole del Papa e poiché le norme vigenti lo permettono, ho scelto di tenere la porta aperta e di rendermi presente. Rispetto coloro che hanno affisso cartelli di “chiuso”alla porta della Chiesa, sui quali non discuto ma a Gagliano la Chiesa non è stata chiusa neanche per un solo giorno. La Chiesa è un luogo di “senso” e se chiude quella porta equivale a smarrire il “senso” di ciò che sta accadendo. Nei limiti della legalità, tuttavia non sempre si possono accettare provvedimenti che trattano il culto di Dio come se andassimo ad un ristorante o ad una gara di atletica. La Chiesa da sempre, nei momenti più difficili della storia, c’è stata e c’è stata in prima linea e ciò non può essere diverso in questo momento. Poi, mi permetta un ricordo dei tanti sacerdoti morti perché in prima linea assicurando il conforto religioso in tanti ospedali. Mi sono sentito di sottolinearlo subito prima di ogni provvedimento che dovevamo esserci come tutti coloro che svolgono professioni essenziali. A questo aggiungo la presenza nei social anche se a dire il vero la tollero più che sceglierla.

Riesce ancora a incontrare i fedeli, o il contatto ormai è totalmente virtuale? E in questa seconda ipotesi, come è possibile vivere la cristianità senza poter accedere a dei sacramenti, come l’Eucarestia o la Confessione?

Al riguardo Papa Francesco ha scritto: «È molto chiaro: se tu non trovi un sacerdote per confessarti parla con Dio, è tuo Padre, e digli la verità: “Signore ho combinato questo, questo, questo… Scusami”, e chiedigli perdono con tutto il cuore, con l’Atto di Dolore e promettigli: “Dopo mi confesserò, ma perdonami adesso”. E subito, tornerai alla grazia di Dio. Tu stesso puoi avvicinarti, come ci insegna il Catechismo, al perdono di Dio senza avere alla mano un sacerdote. Pensate voi: è il momento! E questo è il momento giusto, il momento opportuno. Un Atto di Dolore ben fatto, e così la nostra anima diventerà bianca come la neve». Ma questo stravolge totalmente gli schemi. Come si fa a spiegarlo a un anziano?
Per quello che mi riguarda, gli incontri sono molto ridotti, ma provo a non perdere sia i contatti come anche la presenza fisica. Devo dire che insieme alle forze di Polizia municipale, forse la mia è una delle poche presenze al centro del paese in modo quasi costante, anche solo per salutarsi da lontano o farsi un cenno con gli occhi. In merito ad una fede virtuale, il “no” è secco e risoluto. Non ci potrà essere mai e poi mai una fede virtuale o solo spirituale per lo stesso motivo che ho detto prima: Cristo ha scelto di incarnarsi. Quello che il Papa ha detto è di certo una modalità che non può e non deve essere ordinaria, come non si può pensare di vivere tutti per tutta la vita, attaccati all’ossigeno, così non si può vivere una fede virtuale. Va anche detto che la dimensione spirituale è qualcosa di diverso del virtuale, in quanto si tratta di creare una sintonia interiore con Dio, cosa per altro, indispensabile anche quando c’è la possibilità di accedere ai sacramenti.
L’amore cristiano può essere l’antidoto all’odio, ai sentimenti di rassegnazione a una sorta di selezione naturale darwiniana; o, peggio, al clima di caccia all’untore che sembra serpeggiare sempre di più, a cascata, dal livello nazionale – basti pensare al dibattito assurdo di qualche settimana fa sul cosiddetto “paziente zero” – al locale, come avvenuto a Leonforte?
Come sempre accade in questi momenti – basti pensare alla peste nera descritta dal Manzoni ne “I promessi sposi” – si è capaci di esprimere il meglio e il peggio. La cosiddetta caccia all’untore è frutto del peggio, dell’animo egoistico e soprattutto, è alimentata dall’ignoranza che in questi casi ha sempre la meglio. Il nostro è un paese dove la dimensione del cristianesimo ha innervato i valori, le strutture, la cultura, le scelte, ed in questo momento non si può non riscoprire quello stile evangelico che non solo non ha mai colpevolizzato nessuno ma, è stato capace di insegnare a generazioni la forza della compassione del patire-con. Ritengo che dobbiamo lavorare di più perché dinanzi al crollo del mito della globalizzazione, non nasca il mito del cortile , ma ci sia la capacità di riproporre la “civiltà dell’amore”, come la chiamava San Paolo VI.

Che messaggio si sente di lanciare ai fedeli, attraverso la Parola di Dio?

La Parola di Dio contiene quasi come un ritornello l’invito a “Non temere”, ritengo che questo sia il messaggio centrale di questi giorni. Non si tratta di non avere paura, la paura fa parte del nostro essere fragili ed è persino fondamentale in tante situazioni. Il “non temere” biblico è qualcosa di più, è un non chiudere il cuore alla speranza, ma soprattutto ha sempre un connotato operativo. Quando Dio nella Bibbia dice “non temere” sempre ha un compito da assegnare. Il compito che ci aspetta è costruire un mondo dove il primato non sia della finanza, della corsa sfrenata, del guadagno a tutti i costi, ma un mondo diverso, soprattutto un mondo che si apra, pur nella diversità, al mistero del soprannaturale.
Abbiamo letto di quanto devastante e brutale sia il decorso di questa malattia, per coloro che perdono la vita. Le persone vengono portate in ospedale, isolate da tutti, talvolta prive di coscienza, intubate, e finiscono per morire da soli, senza neppure avere l’opportunità di chiedere il perdono di Dio o ottenere la benedizione dell’Estrema Unzione. Il vescovo Beschi sull’Osservatore Romano ha scritto: “Non possiamo nemmeno più dare l’unzione agli infermi: i sacerdoti nelle parrocchie cercano di avvicinare i malati ma c’è la preoccupazione di non portare il virus insieme con il Signore Gesù, quindi c’è anche un po’ di prudenza. A questo punto abbiamo detto: ma perché un battezzato non può compiere un segno cristiano su coloro che sono malati? Cominciando da quelli che sono in famiglia, i figli, i nipoti, benedicono i propri nonni, i propri genitori. Compiono così un segno di fede per loro. La Chiesa dice che avendo il proposito, poi, di confessarsi sacramentalmente appena possibile, io ricevo il perdono di Dio. Ecco, volevo ricordare ai fedeli questa possibilità”. Condivide?
Condivido la preoccupazione del vescovo Beschi, che conosco personalmente, ed è quella di trovare e talvolta inventare strade, perché la dimensione dello Spirito non scompaia in questo momento così difficile in fondo non possiamo dimenticare che ogni credente in forza del battesimo è anche “sacerdote”. Mi pare, tuttavia, che non vada dimenticata la necessità di prendere spunto da questo momento per percorrere in futuro nuove soluzioni. Al termine di questo passaggio così tragico, ci ritroveremo con molti posti di terapia intensiva che vogliamo sperare rimangano a servizio di una sanità – soprattutto quella del sud – bistrattata e malconcia e talvolta elitaria, ma dobbiamo studiare anche percorsi per umanizzare sempre più la medicina. Ed anche da parte della Chiesa un po’ di coraggio in più non farebbe male, nel parlare e nell’operare.

A proposito dell’operare ma la sua comunità parrocchiale cosa sta facendo dal punto di vista materiale in questo tempo di emergenza?

Tanto, tantissimo. Innanzitutto la nostra Confraternita della Misericordia, si sta adoperando senza sosta, in collaborazione con la Caritas e con il Comune, per servire a domicilio tutti coloro che hanno difficoltà a recarsi in farmacia e a fare la spesa. La Caritas, grazie a diverse donazioni, sta riuscendo a venire incontro a chi in questo momento si trova nell’impossibilità di lavorare e rischia di non avere i soldi per le cose più necessarie. Il Circolo Culturale “La Fionda” sta mantenendo telefonicamente, il servizio di sportello psicologico, che ordinariamente fa presso le Scuole Medie. Infine, sempre la comunità parrocchiale, tramite una famiglia che ha dato la disponibilità sta acquistando un letto di terapia intensiva all’ospedale di Nicosia, nel desiderio di sostenere il territorio. Non per ultimo, si stanno avviando corsi in streaming, per qualificare alcune persone al fine di far fronte ad una emergenza del dopo emergenza, accompagnare chi farà fatica a trovare energie di resilienza immediata e sostenere chi si troverà a dover fare i conti con un disturbo post traumatico da stress.
Persone costrette a restare nelle loro abitazioni. Una minaccia mortale che pende sulle loro teste e da cui non si sa come difendersi. Alcuni hanno ricordato l’immagine dell’Apocalisse.
Si! Si tratta di un Apocalisse. Se pensiamo che la parola apocalisse, pur significando “rivelazione” è comunemente usata per indicare la fine del mondo, siamo di fronte alla fine di un mondo. Il mondo, così come lo abbiamo vissuto fino ad ora, è finito. Dobbiamo cominciare a pensare ad un nuovo mondo, al mondo del dopo pandemia. Speriamo di far tesoro per costruire sulle macerie del vecchio mondo.

Condivide le scelte del Governo in questa emergenza?

Non sono nessuno per condividere, ma da italiano diventato prete, mi sento di dire che va aperta una grande riflessione sulla cultura e l’identità cattolica in Italia, ma questa è una questione del dopo. Dal governo mi sarei aspettato un pò più di avvedutezza nel linguaggio usato nei decreti, credo non manchino né fini giuristi, né linguisti che “limano” i provvedimenti, ciò per evitare di chiamare la Santa Messa Cerimonia, inducendo anche ad uno spazio di incertezza, come anche ad altre affermazioni che hanno generato incertezza e necessitato di altri interventi di altri organismi per renderli espliciti. Poi mi si permetta un’osservazione a proposito del linguaggio il concetto di “distanziamento sociale” è un concetto sociologico, sarebbe stato molto più opportuno parlare di “distanza fisica”. Ma quando si ha fretta si sa che non si bada alle sottigliezze. L’unica speranza è che non sia “chiusa” la Costituzione e la Democrazia.

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