Politica

Il tempo dei nominati

È di qualche settimana fa la notizia che Antony Barbagallo è il nuovo segretario regionale del Pd. L’opera di riorganizzazione del partito adesso ha finalmente preso il via con un segretario riconosciuto e riconoscibile. L’attività del nuovo numero uno piddino isolano inizia sotto una buona stella? È possibile che potrà fare bene considerata la sua esperienza e il nuovo spirito che avvolge il partito ma non sembra che questo cammino cominci a muoversi sotto una buona stella. La somma di considerazioni politico-organizzative che abbraccia oggi tutti i soggetti politici non è foriero di giudizi lusinghieri. E rispetto tale giudizio i Pd non si discosta dagli altri. Tutti alla ricerca di numeri per dettare le regole nessuno che intenda ripartire da una sana, e a questo punto auspicabilissima, democrazia interna. I vertici locali e nazionali, quasi mai, se non mai, vengono eletti dopo un confronto anche elettorale. Le cronache hanno preso il vizio, ormai da tempo, a limitarsi a registrare candidati unici o addirittura commissari che si perpetrano per anni e a volte per decenni. Rispetto tale filosofia Forza Italia ha fatto da apri pista e tutti gli altri, presto o tardi, si sono accodati con “summo gaudio.” Prevale un pragmatismo eccessivamente concreto, talmente concreto che ormai ha triturato l’intero panorama partitico. Agli iscritti, quando ce ne sono, non è concessa l’elezione di un segretario e di una classe dirigente come agli elettori, molte volte, non è concesso di accordare una preferenza. La democrazia viene calpestata e i centri di potere si rafforzano. Ovviamente la critica non è solo rivolta al Pd o al neo eletto segretario, al quale invece è facile riconoscere competenza e capacità per il ruolo. Il giudizio negativo, e perfino il biasimo, è invece rivolto all’odierno sistema dei partiti che non rappresentano più idee, programmi, sentimenti, racchiusi come sono nella stanza dei bottoni. E se non ci sono spingono per entrare. La politica, utilitaristicamente, ha trasformato ogni elezione, ogni scelta, in una nomina. Prevale il comodo altare del non confronto, del non voto, dell’assenza di dialogo. Per chi comanda è più semplice nominare vertici provinciali o locali che passare sotto il giogo di un confronto congressuale. E anche quando sono presenti varie sensibilità, si chiamano così le odierne posizioni, i possibili candidati non scendono in campo con la macchina della mediazione che inizia a ruggire per arrivare al candidato unico. E, quasi sempre, la scelta fatta a tavolino e non partorita dai consensi non rappresenta il meglio che la cultura democratica possa esprimere. L’asfittica mediazione innalzata ai massimi livelli produce a iosa soldatini incapaci di dare spinte empatiche ad organismi che del progetto e dell’entusiasmo ne dovrebbero fare pane quotidiano. Il candidato unico o il commissario non sa di democrazia, di sano confronto, sa di altro e lascia in bocca un retrogusto acre, mediocre. Mancano i congressi con due o tre candidati e con il voto degli iscritti o dei delegati. Oggi candidati unici e commissari santificano esclusivamente gli interessi dei più forti senza garantire più neppure le mancette alle minoranze. Chi non ci sta va fuori con la sacra benedizione di una democrazia sviata. Questo è lo spettacolo offerto. La risposta della gente sta nell’abbandono della politica, nei partiti che non attirano più, nella partecipazione scarsa e scadente.

Paolo Di Marco

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