Medicina

Coronavirus e informazione: cronaca o terrorismo mediatico? (Parte terza)

Articolo scritto dal dottore Fabrizio Pulvirenti ripreso dal suo blog http://www.fabriziopulvirenti.it/politicasanitaria/coronavirus/

Riprendiamo il discorso interrotto ieri e, come da impegno, vediamo di capire “chi” e “per cosa” è deceduto nel corso della fase acuta dell’epidemia da SARS-CoV2. I dati che analizzeremo in questa parte della nostra esposizione saranno ancora una volta quelli messi a disposizione dall’Istituto Superiore di Sanità; dati aggiornati al 22 luglio 2020.
Il campione analizzato è di 34.142 pazienti che sono deceduti con riscontro di infezione da SARS-CoV2 nel nostro Paese. L’età media di tali pazienti deceduti con tampone positivo è di 80 anni con una età mediana (ovvero il valore centrale del campione) di 82 anni. Confrontando l’età dei pazienti deceduti con quella dell’insieme dei pazienti che hanno contratto l’infezione e che sono guariti emerge che tutti quelli che sono morti sono più anziani mediamente di circa 20 anni rispetto ai sopravvissuti: l’età mediana dei pazienti guariti dall’infezione è, infatti, di 61 anni. Inoltre le donne decedute dopo aver contratto l’infezione hanno mediamente un’età più alta rispetto agli uomini (85 contro 79).

Ovviamente l’età non può essere considerata l’unica variabile in grado di determinare il decesso dopo il contagio; è necessario verificare quali fossero le condizioni preesistenti. Al momento della pubblicazione dei dati sono state analizzate le cartelle cliniche di 3.952 pazienti deceduti ed è emerso che, di questi pazienti, soltanto per 155 (ovvero il 3,9% del campione) non è stata dichiarata alcuna patologia già presente al momento della diagnosi di infezione, per 549 pazienti (il 13,9%) è stata registrata una singola malattia, per 807 (il 20,4%) ne sono state dichiarate due, ma per la grande maggioranza dei pazienti deceduti, 2.441 (ovvero il 61,8%) sono state riportate tre o più di tre condizioni patologiche preesistenti.
Circa l’1% dei pazienti del campione preso in esame sono di età inferiore a 50 anni; più esattamente 303 pazienti con età compresa tra i 40 e i 49 anni e 86 di età inferiore a 40 anni. Tuttavia, anche in questo piccolo gruppo di pazienti, soltanto per 14 di essi non è stato possibile documentare malattie preesistenti al momento della diagnosi di infezione da SARS-CoV2.
Quindi età avanzata e comorbidità (ovvero la presenza di altre malattie croniche) sarebbero da considerare elementi che incidono in modo sfavorevole nel decorso dell’infezione tant’è che uno sparuto gruppo di infettivologi, forse più audaci e, per tale ragione, considerati imprudenti, già durante la “fase calda” dell’epidemia ha iniziato a dichiarare che le persone decedute in quel periodo sono morte “con” il Coronavirus e non “per” il Coronavirus.

Tuttavia l’esame bruto dei decessi (non importa se “per” o “con”) nel corso della epidemia da Coronavirus non è di per sé sufficiente a chiarire il peso della situazione. Per potere analizzare questo aspetto è necessario confrontare i dati relativi ai decessi con un altro importante elemento epidemiologico: la prevalenza della infezione.
Il Ministero della Salute ha condotto, di concerto con la Croce Rossa Italiana, l’indagine epidemiologica per valutare la sieroprevalenza dell’infezione da SARS-CoV2 nella popolazione italiana servendosi di esami del sangue in grado di identificare gli anticorpi che il sistema immunitario dei soggetti contagiati produce. La prevalenza (e la sieroprevalenza) definisce il numero di soggetti che hanno contratto l’infezione in rapporto alla popolazione generale, è espresso in termini percentuali e ci fornisce indicazioni su “quanto” il virus abbia circolato nella popolazione (con o senza manifestazioni cliniche). L’analisi di cui parliamo è stata eseguita su un campione abbastanza rappresentativo della popolazione italiana di (al momento della pubblicazione dei dati) 64.660 cittadini. Dall’analisi dei dati è emerso che il virus ha circolato 6 volte di più di quanto evidenziato durante la fase “calda” dell’epidemia. Infatti, a fronte dei circa 254.000 contagi, la proiezione statistica (per quanto ancora incompleta) ha stimato circa 1,5 milioni di soggetti contagiati, con ampie variazioni nella distribuzione territoriale. Ora, se confrontiamo il numero di pazienti che sono deceduti (“con” o “per”) durante l’evento epidemico (34.142) con il numero dei contagiati al momento stimato (1.500.000) otteniamo la letalità di SARS-CoV2 che, in atto, è pari a 2,3%. Questo significa che soltanto due pazienti su cento contagiati muoiono a causa di (o con) SARS-CoV2. Questo tasso potrebbe essere ulteriormente rivisto al ribasso quando avremo i dati completi delle analisi che sta in atto conducendo l’Istituto Superiore di Sanità relativi alla prevalenza dell’infezione che al momento sembra essere presente nel 2,5% della popolazione italiana e qualora fosse possibile “allargare” la platea dei soggetti sottoposti a controllo.

Ma, ancora, tali dati che abbiamo fin qui analizzato possono non essere sufficienti a chiarire la portata dell’evento epidemico. È diventato abituale confrontare la prevalenza dell’infezione da SARS-CoV2 con quella di altre malattie a simile modalità di contagio e il confronto più tipicamente fatto è con l’influenza.

La stagione influenzale 2015-2016, classificata a “bassa intensità” ha fatto registrare in Italia 4,9 milioni di casi, l’8% della popolazione, dall’inizio della stagione. Quale sia il reale impatto dell’influenza nel causare i decessi è di difficile determinazione.

L’Istituto Nazionale di Statistica riporta, per ogni anno, poche centinaia di decessi direttamente attribuibili ai virus influenzali che sono quei casi per i quali sono state condotte specifiche indagini di laboratorio. Inoltre, così come sottolinea Antonino Bella del Dipartimento Malattie Infettive dell’ISS, i virus influenzali spesso aggravano le condizioni già compromesse di pazienti affetti da altre patologie (per esempio respiratorie o cardiovascolari) fino a provocarne il decesso; in questi casi molto raramente il virus influenzale è identificato perché non ricercato e spesso il decesso è attribuito a polmoniti generiche. A causa di tali difficoltà il dato sui decessi per (o con) virus influenzali è estrapolato dall’aumento giornaliero dei decessi nel corso delle epidemie e, attraverso complessi calcoli statistici ed epidemiologici, si stimano mediamente 8.000 decessi l’anno causati dai diversi ceppi influenzali.

Ora, nonostante sia divenuto abituale confrontare la CoViD con l’influenza, tale paragone (almeno per il momento) non è corretto farlo per almeno due ordini di ragioni: 1) contro l’influenza è possibile vaccinarsi; 2) il virus influenzale è ricercato nella popolazione (per cui non ne conosciamo la reale prevalenza e la reale letalità) mentre SARS-CoV2 sì.

Al termine di questa nostra analisi dovremmo pertanto avere compreso alcuni punti che ci dovrebbero essere utili per interpretare le notizie che riceviamo dai mezzi di informazione, primo e più importante di tutti che l’infezione da SARS-CoV2 non significa automaticamente malattia per cui, quando sentiamo o leggiamo di aumento dei casi di CoViD, stiamo ricevendo una notizia sbagliata perché l’aumento è eventualmente riferito al numero delle persone contagiate e non al numero delle persone ammalate.

Naturalmente, ed è bene ribadirlo, questi strumenti, utili all’interpretazione, non devono rappresentare una sorta di autorizzazione a comportamenti imprudenti o rischiosi per la propria o altrui salute; devono essere considerate informazioni utili a comprendere il fenomeno in modo scientificamente ragionevole.

Domani concluderemo questa analisi affrontando il tema dei vaccini e quello (relativamente più complesso) della possibilità di una ripresa della epidemia come l’abbiamo vissuta tra marzo e aprile.

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