Cronaca

La verità non si querela: archiviate tre denunce contro la giornalista Pierelisa Rizzo

Il tribunale di Enna ha archiviato, con un provvedimento chiaro e inequivocabile, tre querele per diffamazione e diffusione di atti processuali presentate contro la collega giornalista Pierelisa Rizzo da Giuseppe Rugolo, il sacerdote condannato a 4 anni e 6 mesi per violenza sessuale su minori.

Non si tratta di un dettaglio tecnico né di una semplice “vittoria legale”: è una decisione che assume un valore molto più ampio, perché arriva al termine di un’azione giudiziaria che ha avuto tutte le caratteristiche della pressione mirata contro chi ha raccontato una vicenda scomoda. Un uso dello strumento della querela che, come dimostra l’archiviazione, non aveva fondamento, ma che è stato portato avanti comunque, anche tentando il sequestro dei telefoni e dei supporti informatici della giornalista. Uno scenario che dovrebbe far riflettere.

Le denunce contro la Rizzo erano già state archiviate dalla Procura, ma i legali di Rugolo si erano opposti. Ora anche il Tribunale ha chiuso il cerchio, stabilendo che la cronaca svolta dalla collega rientra pienamente nei confini della legge. In altre parole: non c’è stata alcuna violazione, solo esercizio del diritto di informare.

Pierelisa non è stata l’unica bersagliata: querelati anche altri sei giornalisti, il presidente dell’associazione Rete L’Abuso, Francesco Zanardi e Antonio Messina, una delle vittime, la cui denuncia ha dato origine all’intera inchiesta. Anche queste querele, in larga parte, sono già state archiviate o sono in attesa della decisione definitiva. Un pattern che si ripete, che assume i contorni di una strategia: non un’azione difensiva, ma un attacco alla libertà di stampa e alla libertà di parola.

Il punto è proprio questo: quando una persona viene querelata non per avere diffamato, ma per avere raccontato fatti documentati e di interesse pubblico, ci troviamo davanti a un uso distorto dello strumento giudiziario. Queste non sono vere querele: sono atti intimidatori, azioni che mirano a scoraggiare, zittire, affaticare il lavoro giornalistico, spesso contando sul peso psicologico, economico e legale che ogni procedimento porta con sé.

Tre querele, tre archiviazioni. Eppure, l’obiettivo, cioè quello di far sentire il fiato sul collo a chi racconta i fatti, non si misura solo con l’esito finale, ma con l’effetto immediato: la paura, il dubbio, il rallentamento. È questa la forza delle cosiddette “querele temerarie”, che non vogliono (necessariamente) vincere, ma colpire. In questo caso, non ci sono riuscite.

Il giudice di Enna, come prima quello di Savona nel procedimento contro Zanardi, ha stabilito che non sussiste alcun divieto di pubblicazione anche parziale degli atti di un processo celebrato a porte chiuse, quando esiste un interesse pubblico rilevante, come nel caso delle violenze sessuali commesse da un sacerdote e delle responsabilità che ne sono derivate.

Del resto, il processo Rugolo non si è concluso solo con la sua condanna. Ha portato anche all’incriminazione per falsa testimonianza del vescovo Rosario Gisana e del vicario giudiziale Vincenzo Murgano, delineando uno scenario inquietante all’interno della diocesi di Piazza Armerina, che non poteva e non doveva restare sotto silenzio. Come ha dichiarato la stessa Rizzo, “questo processo, seppure a porte chiuse, andava raccontato”.

Colpisce che, nonostante tutto, durante il processo d’appello in corso, i legali di Rugolo abbiano accusato in aula la giornalista di aver “condizionato testimoni e giudici” con i suoi articoli. Una posizione che sembra ignorare il ruolo della stampa in una democrazia: non plasmare le sentenze, ma illuminare i fatti.

Rizzo ha ricevuto la solidarietà di Ossigeno per l’Informazione, dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e dell’Assostampa e ha potuto contare sulla competenza dei suoi legali, Eleanna Parasiliti Molica e Giovanni Di Giovanni, che hanno difeso un principio fondamentale: raccontare la verità non può essere un reato.

Intanto, la vicenda giudiziaria prosegue: il prossimo 1° luglio si attende la sentenza d’appello per Giuseppe Rugolo a Caltanissetta, mentre a fine ottobre è fissata la prima udienza del processo a carico di Gisana e Murgano. Una storia che si trascina da anni, ma che merita di essere finalmente chiusa con chiarezza e responsabilità, perché l’unico silenzio accettabile è quello che arriva dopo aver fatto giustizia.

Le archiviazioni di Enna non cancellano il rischio che altri colleghi subiscano lo stesso trattamento. Ma segnano un punto fermo: la giustizia, quando funziona, riconosce la differenza tra chi cerca la verità e chi prova a sottrarsene facendo tacere gli altri.

E se c’è una lezione in questa vicenda è che la libertà di stampa è ancora viva proprio perché qualcuno ha il coraggio di non arretrare.

Manuela Acqua

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