Cronaca

Tra attacchi e video shock, si infiamma il processo Rugolo: la sentenza slitta al 1° luglio

È stato rinviato al primo luglio il pronunciamento della Corte d’Appello di Caltanissetta nel procedimento a carico di Giuseppe Rugolo, il religioso precedentemente condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per abusi su minori dal tribunale di Enna. La decisione, inizialmente prevista per il 17 giugno, slitta in attesa di ulteriori valutazioni.

Nell’udienza odierna, il procuratore generale Antonino Patti ha ribadito la richiesta di conferma della sentenza di primo grado, opponendosi fermamente alla revisione del giudizio. Hanno replicato anche gli avvocati delle parti civili, del presunto responsabile civile e della parrocchia di San Giovanni, coinvolta marginalmente.

Proprio sul ruolo della parrocchia si è espressa la difesa di quest’ultima, rappresentata da Mauro Lombardo, che ha sostenuto che, nonostante non fosse stata ritenuta responsabile in primo grado, qualora la condanna venisse ribaltata, anche la parrocchia ne potrebbe trarre beneficio. Un’argomentazione difensiva che appare più opportunistica che giuridicamente fondata, e che sembra rispondere più al timore di una conferma della condanna che a un reale interesse per l’accertamento dei fatti.

L’avvocato Lombardo ha anche contestato la versione di Antonio Messina, il giovane archeologo che per primo ha avuto il coraggio di denunciare Rugolo, insinuando che avrebbe falsificato la natura del rapporto col sacerdote. Ma questa affermazione non tiene conto della coerenza e determinazione con cui Messina ha portato avanti la sua denuncia, né delle prove documentali che lo sostengono.

A confermare la gravità della situazione è intervenuta Eleanna Parasiliti Molica, legale della parte civile, la quale ha mostrato in aula materiale visivo esplicito dal contenuto altamente disturbante, in cui compaiono minori e in cui il sacerdote è ripreso in atteggiamenti inaccettabili con ragazzi della sua associazione giovanile.

Ha fatto discutere anche il tentativo di risolvere la questione con un’indennità economica da parte della diocesi, che secondo la difesa della curia sarebbe stata richiesta dalla famiglia di Messina. Ma la realtà dei fatti mostra altro: un notaio avrebbe messo in guardia il vescovo dal versare la somma in contanti, e Antonio Messina avrebbe posto come condizione che venisse riconosciuto apertamente il motivo del pagamento: non una generica “borsa di studio”, ma un “risarcimento danni”. Una richiesta di trasparenza e verità, non una pretesa economica.

Antonio Messina ha mostrato coraggio, lucidità e una volontà di giustizia incrollabile. In un processo che coinvolge figure di potere e ambienti religiosi spesso chiusi, la sua voce continua a rappresentare un appello a non cedere al silenzio o alla convenienza. È ora che la giustizia confermi ciò che già è stato stabilito: la verità merita rispetto.

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