È sempre 25 novembre

È sempre 25 novembre. Non perché il calendario lo imponga, ma perché ogni giorno in questo Paese continua ad assomigliare terribilmente a quella ricorrenza che fingiamo di onorare. Sfilano fiocchi rossi, slogan levigati, promesse istituzionali che durano il tempo di una conferenza stampa: il rito si ripete, ordinato, rassicurante. E intanto la realtà resta lì, ostinata e feroce, a ricordarci che la violenza sulle donne non è un appuntamento annuale, ma una costante che attraversa la nostra società come una crepa mai riparata.
È sempre 25 novembre quando lo Stato racconta l’emergenza con la stessa voce con cui si commenta un fenomeno atmosferico: inevitabile, episodico, sorprendente ogni volta. Eppure che cosa c’è di sorprendente? I centri antiviolenza che lottano per sopravvivere, le case rifugio insufficienti, le forze dell’ordine e la magistratura lasciate senza strumenti, senza formazione, senza continuità. Le leggi ci sono, alcune persino buone. Ma restano spesso sospese fra l’intenzione e l’applicazione, come se tutelare la vita di una donna fosse un compito opzionale, non una responsabilità costituzionale.
È sempre 25 novembre quando un femminicidio diventa un “raptus”, un “gesto di follia”, una “tragedia familiare”. Il linguaggio si fa carezza al colpevole e schiaffo alla vittima. L’uomo è descritto come “un insospettabile”, “un bravissimo padre”, “un vicino tranquillo”: il vero enigma da decifrare sembra essere lui, non la cultura che gli ha suggerito che l’amore è possesso, la gelosia è un attenuante e il corpo delle donne è un territorio da controllare.
Ed è sempre 25 novembre nei tribunali in cui le vittime devono difendersi prima ancora di testimoniare. Come era vestita? Perché non se n’è andata? Perché è tornata? Il processo alla donna è un rito antichissimo che resiste con ostinazione, anche quando nessuno ha il coraggio di chiamarlo col suo nome: violenza istituzionale.
Ogni anno, il Paese si commuove per un giorno. Si piangono le morti, si invocano cambiamenti radicali, si alzano slogan contro la barbarie. Poi, lentamente, puntualmente, si torna al rumore bianco della normalità. Una normalità che è fatta di donne ammazzate, denigrate, stuprate; di richieste d’aiuto rimaste senza risposta; di educazione sentimentale mai davvero iniziata; di responsabilità politiche spezzettate, rinviate, diluite.
Finché non capiremo che il 25 novembre non è una data ma un fallimento quotidiano, continueremo a celebrare il problema invece di affrontarlo. E allora sì, sarà sempre 25 novembre. Non come giorno di memoria, ma come atto d’accusa. E non contro “i mostri”, figure comode da additare, ma contro un Paese che troppo spesso preferisce ricordare anziché cambiare.
Manuela Acqua



