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Cornute e contente? Riflessioni su “Mia moglie”

Dietro lo schermo di un “partecipante anonimo” che in realtà anonimo non è, migliaia di uomini si sono mossi con una leggerezza sconcertante: caricare, guardare, commentare foto intime di donne ignare, in un gruppo Facebook dal nome tanto banale quanto sinistro, “Mia moglie”. Un salotto virtuale in cui la parola consenso non è ben vista e dove la dignità femminile è stata trattata come merce da scambiare al mercato.

La vicenda, esplosa in pochi giorni, ha sollevato una tempesta di indignazione. Non servono analisi sociologiche: donne ritratte mentre cucinano, prendono il sole, si siedono con naturalezza. Tutte immagini “private” trasformate in spettacolo per 31mila iscritti. È servita la pressione collettiva per far chiudere il gruppo nella tarda mattinata di un martedì d’agosto. Un portavoce di Meta si è affrettato a precisare che violazioni simili non sono tollerate. Ma la toppa arriva sempre dopo lo strappo.

Scorrendo le discussioni, si leggono avvisi di utenti che dichiarano di aver segnalato tutto alla Polizia Postale, avvertendo pure partner e familiari degli iscritti. Solo dopo decine di post indignati si inciampa nei contenuti incriminati: foto rubate, mogli, compagne, sorelle, amiche, perfino sconosciute finite per caso in un obiettivo troppo invadente. Alcuni tentano di coprire volti o tatuaggi, altri invece non si pongono alcuno scrupolo. E intanto i commenti, sempre più espliciti, rendono la dinamica simile a un vero e proprio stupro virtuale.

E adesso arriviamo alla parte più sconfortante della storia: l’idea che tutto questo sia stato possibile alla luce del sole, in un gruppo pubblico, accessibile a chiunque, senza che nessuno (se non dopo la denuncia collettiva) abbia pensato di intervenire. Non solo un problema di singoli, dunque, ma il segno di una cultura che ancora considera il corpo delle donne un bene disponibile, un divertimento da condividere senza chiedere il permesso.

Certo, la pagina è stata chiusa. Ma la chiusura di un gruppo non cancella la mentalità che lo ha generato, né restituisce la dignità a chi è stata esposta senza consenso. Le piattaforme si difendono con comunicati, i responsabili si nascondono dietro la parola “anonimo” e, nel frattempo, le vittime restano sole a fare i conti con la violenza subita.

Resta allora una domanda amara: cos’è che dovremmo considerare una conquista? La chiusura del gruppo o il fatto che, in questo scenario, una donna possa persino sentirsi “fortunata” se il massimo che le capita è di essere tradita? Vuoi vedere che siamo arrivate al punto in cui ci si deve ritenere privilegiate se si è soltanto cornute e non anche esposte alla gogna digitale?

Ma non basta fermarsi qui. Il problema non sono solo i 31mila iscritti, ma i colossi digitali che fingono di scoprire l’acqua calda ogni volta. E intanto si congratulano da soli: “abbiamo chiuso il gruppo”. Complimenti, applausi, ricchi premi e cotillon: peccato che la dignità delle donne non si ricostruisca con un comunicato stampa.

PS: poi, sapere che tra gli iscritti al gruppo c’erano anche donne fa davvero perdere fiducia nell’umanità.

Manuela Acqua

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