Cronaca

“Aveva ragione Hitler”: condanna confermata a Rugolo, tra citazioni shock e difesa teatrale

Il secondo grado di giudizio non cambia la sostanza: don Giuseppe Rugolo è colpevole di abusi sessuali su minori. Lo era per il tribunale di Enna, lo è anche per la Corte d’appello di Caltanissetta. Cambia solo la misura della pena: da 4 anni e 6 mesi si scende a 3 anni “ritenuta l’attenuante per la minore gravità per tutte le condotte contestate”. Una formula giudiziaria che non ribalta però la condanna: gli abusi ci sono stati, il quadro accusatorio tiene e la testimonianza di Antonio Messina resta solida.
Ed è attorno a questa tenuta, giuridica ed emotiva, che si consuma un processo che, al netto degli aspetti tecnici, ha assunto toni surreali. Soprattutto nel momento dell’arringa della difesa. L’avvocato Lizio, legale del sacerdote, ha portato in aula un repertorio che è sembrato oscillare tra provocazione, retorica estrema e cabaret involontario. Il momento che ha colpito più di tutti è arrivato con una frase pronunciata in tono assertivo, quasi accademico: “Aveva ragione Hitler: più le sparano grosse e più ci crederanno.”
L’avvocato Lizio intendeva sostenere che sul conto del suo assistito, don Rugolo, siano state costruite accuse false, ingigantite, rese credibili solo dalla loro enormità. Una tesi già di per sé controversa. Ma prendere a prestito un pensiero di Adolf Hitler per difendere un sacerdote accusato di pedofilia, in un’aula di giustizia italiana, ha spostato l’attenzione dalla sostanza al linguaggio. Il messaggio è passato, ma il mezzo ha lasciato perplessi più o meno tutti i presenti. A questo si è aggiunto un attacco diretto alla credibilità di Antonio Messina, la vittima che ha denunciato. L’avvocato lo ha definito “megalomane”, insinuando che la sua denuncia fosse frutto di una personalità narcisistica, più interessata alla visibilità che alla verità. Un’affermazione che non ha trovato riscontro nei due gradi di giudizio, dove la sua testimonianza è stata invece ritenuta coerente e credibile.

Il resto dell’arringa non ha deluso chi si aspettava un tono sopra le righe. Il difensore di Rugolo ha cercato di minimizzare gli episodi contestati attraverso un’operazione di normalizzazione e paragoni “pop”. È il caso dell’episodio più discusso del processo: la doccia fatta da Rugolo insieme a un ragazzino in piscina. L’avvocato, questa volta Lovison, liquida la questione con una domanda retorica:
“Chi non si fa la doccia prima di entrare in piscina?”. Non proprio una spiegazione esaustiva, se si considera il contesto e la posizione di potere che il sacerdote rivestiva rispetto al minore coinvolto. Non è finita. Per difendere lo stile “giocoso” e “confidenziale” con cui Rugolo si sarebbe rapportato ai ragazzi, Lizio, riprendendo ciò che era già stato detto dall’avvocato Lovison, ha riesumato un celebre sketch del Festival di Sanremo, quando Roberto Benigni toccò nelle parti basse Pippo Baudo in diretta televisiva. A quel punto, in una teatralità che ha superato il limite del buon gusto, ha simulato un tocco all’avvocato Lovison, seduto accanto, dicendo subito dopo: “Ops, ho commesso un reato!”. Un gesto plateale, concepito per dimostrare quanto possa essere labile il confine tra una battuta e un’accusa. Peccato che la scena si svolgesse durante un processo per abusi su minori, non in un talk show serale.

Altro passaggio discusso, quello del famigerato “alzabandiera”, l’espressione con cui Rugolo avrebbe scherzato con un ragazzino (anch’egli parte offesa) che dormiva con lui durante una gita parrocchiale. Per la difesa, si tratta di “normali battute tra uomini”. Aggiungendo, come nota di stile personale, che lui, Lizio, queste battute non le fa. Un modo per prendere le distanze mentre si giustifica il gesto: un equilibrio precario, tanto nella forma quanto nel contenuto.

Un passaggio tecnico ma importante riguarda l’esclusione della Curia di Piazza Armerina dalla responsabilità civile. Non per una valutazione di merito, ma per una questione di etichetta giuridica: il testo del ricorso cita “Curia” e non “Diocesi” e poiché la Curia non è un soggetto giuridicamente riconosciuto è stata formalmente estromessa. Un cavillo di forma, non di sostanza, che di fatto impedisce di attribuire alla Curia eventuali obblighi risarcitori, ma che non solleva da eventuali responsabiltà il Vescovo Gisana.

In aula era presente anche Antonio Messina, la prima persona ad avere avuto il coraggio di denunciare Rugolo. “Ho sempre voluto solo ed esclusivamente giustizia”, ha dichiarato a caldo.
“Gli abusi sono stati riconosciuti sia in primo che in secondo grado. Il processo contro il vescovo Gisana e il vicario giudiziale Murgano per falsa testimonianza deve ancora iniziare. Ai giovani che vogliono denunciare dico: non andate dai servizi per la tutela minori, se lì dentro c’è chi difende i pedofili”. Il riferimento è all’avvocato di Rugolo, Denis Lovison, membro del servizio tutela minori della diocesi di Ferrara-Comacchio.

“Per quanto riguarda la posizione del mio assistito, l’impianto accusatorio è stato interamente confermato. Vince ancora una volta la credibilità di Antonio”, ha detto l’avvocato Eleanna Parasiliti Molica, legale di Messina.

La procura, per voce del sostituto procuratore Gaetano Bono, si è così espressa:
“Attendiamo le motivazioni, poi valuteremo se proporre ricorso in Cassazione su alcuni punti ancora critici”.

Il processo Rugolo, al netto delle arringhe teatrali, delle frasi scioccanti e dei paragoni televisivi, si chiude con una conferma della colpevolezza. E con una lezione che va oltre le aule giudiziarie: la credibilità delle vittime può ancora resistere a chi tenta di travestire gli abusi da battute. Anche quando a farlo è un avvocato, anche quando le battute si fanno in aula.

Manuela Acqua

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